domenica 27 ottobre 2019

Interessi regionali a danno di una comunità fiera.

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Nella storiografia delle battaglie per autonomia, l’esperienza curda rappresenta un esemplare lotta di autodeterminazione di diverse minoranze che abitano per lo più a cavallo tra Siria, Iraq, Iran e Turchia e che insieme condividono il cosiddetto Kurdistan. (sono presenti comunità curde anche in zone delle repubbliche ex sovietiche, come l’Armenia e l'Azerbaigian). Si tratta di un popolo che condivide un passato antichissimo radicato nella storia e mai riconosciuto pienamente entro limiti territoriali. Sono combattenti valorosi che da anni lottano per la propria indipendenza e per il controllo della terra su cui vivono.

I curdi se prima erano riconosciuti dall'impero Ottomano e protetti sotto uno stato di autonomia, con la caduta dei grandi Imperi e il trattato di Losanna 1923 furono repressi a lungo e la regione del Kurdistan si frammento favorendo gli interessi delle potenze di Intesa. L'entità curda vede dai suoi albori l'ostilità del governo turco e la lotta del regime di Erdogan col tempo si fa sempre più aspra, determinato a rivolgersi non solo entro i confini nazionali ma soprattutto verso quelli internazionali. 

L’oppressione curda in Siria nel 2014 inizia tramite azioni più concrete e quattro anni dopo raggiunge picchi aggressivi con l’operazione Ramoscello d’ Ulivo iniziata a gennaio 2018 e con l’obiettivo di attaccare il partito dell'unione democratica curdo (PYD) e la sua armata unità di protezione popolare (YPG) , oltre che le forze democratiche siriane (SDF) che circondavano la città di Afrin. Dopo “scudo dell’ Eufrate” e” Ramoscello d’Ulivo” Erdogan, tra il 9 e il 10 ottobre attacca il nord della Siria, battezzando l’offensiva con il “Fonte di Pace”. La Turchia è determinata nel voler liberare il prima possibile la striscia di territorio al confine che andrebbe ad “ospitare” circa due milioni di profughi siriani attualmente presenti in Turchia.


Dal 2015 i combattenti a guida curda nella zona sono stati delegati dagli Stati Uniti nella lotta contro l’Isis, sconfiggendo infine il gruppo militante dopo aver perso 11.000 truppe durante gli scontri. 
Tuttavia la Turchia considera tuttora l’ala militare del Comitato Supremo curdo (YPG) - composto dal partito dell’unione democratica (PYD) e il consiglio nazionale curdo (KNC)-, un gruppo terrorista indistinguibile dal partito del lavoratori del Kurdistan, organizzazione paramilitare del PKK.

Le forze democratiche siriane (SDF) formate da un'alleanza di milizie curde, arabe e assiro-siriane che oggi vedono meno il supporto statunitense dopo la decisione di Trump di abbandonarle ad un inevitabile assalto turco. I cambi strategici nella regione stanno provocando una nuova crisi umanitaria in Siria, dove le Nazioni Unite hanno stimato che nel paese 13.1 su 22 milioni sono dipendenti da aiuti e di questi 5.6 milioni sono in una situazione estremamente vulnerabile. L’attacco turco transfrontaliero contro le aree abitate dai curdi ha generato centinaia di morti e 300.000 persone sfollate.

La presa di posizione del presidente americano e stata criticata come “tradimento” di un partner militare scatenando un disastro umanitario e una minaccia della rinascita dell’Isis: domenica 13 ottobre infatti almeno 750 persone legate al gruppo terrorista, sarebbero fuggite da un campo nel nord-est della Siria. L’indietreggiamento delle truppe americane nel nord della Siria ha affondato l’esperimento di autonomia democratica dei curdi causando centinaia di morti e migliaia di profughi. L'incapacità dell’Alleanza Atlantica di fermare il massacro curdo, oltre ad evidenziare un disimpegno usa in Medio Oriente, ha favorito l’influenza di altri attori protagonisti quale la Russia. A seguito di 6 ore di colloquio l’accordo di Sochi sancito la scorsa settimana tra Vladimir Putin e il presidente turco Erdogan ha confermato il piano di Ankara di stabilizzazione di una “safe zone” estesa a est del fiume Eufrate per 440 km lungo il confine con la Turchia; anche l’Iran, storicamente alleata di Mosca beneficia dalle mosse russe e dal ritiro americano mentre il regime di Damasco prenderà il controllo del nord del Paese con la benedizione di Mosca, custode di Ankara rispetto alle scelte di Assad. Infatti l’intesa sancisce una tregua di 150 ore delle operazioni militari nel nord-est siriano in vista dell'evacuazione delle milizie curde YPG dalle zone che entreranno nella fascia di sicurezza turca di 120 km di lunghezza per 32 di profondità nel territorio siriano. Nel memorandum di intesa le due parti assicurano la tutela della sovranità e dell'integrità territoriale siriana e la lotta a ogni tipo di terrorismo. Militari russi e siriani monitoreranno l’effettivo allontanamento dei combattenti curdi dall'area cuscinetto. Tra Tell Abyad e Ras al-Ayn per circa dieci km sono previsti pattugliamenti russo-turchi ad eccezione di Qamishli, controllata da truppe russe. Il ruolo di Putin potrebbe diventare cruciale come garante della sicurezza europea, dal momento che i russi stanno esortando Ankara a sorvegliare i jihadisti ed esponenti dell’Isis fuggiti dalle carceri, prima gestite dai curdi. In un contesto che ricorda la conquista di sfere di influenza durante la guerra fredda del secolo scorso, la sconfitta dei curdi vede la Russia come primo attore nello scenario mediorientale.

Durante il più importante dispiegamento delle forze militari nell'area da anni, pare che la storia si ripeta: ancora una volta, un Paese lacerato dalla guerra civile viene invaso improvvisamente da una potente nazione con il fine preciso di colpire una comunità in particolare in un progetto di sterminio mirato. I combattenti consegnano le armi e si allontanano con la garanzia americana o russa, che la “pulizia“ venga effettuata e che l'ordine ritorni a predominare sul caos.

venerdì 25 ottobre 2019

Aswat min al-sharq al-awsat/Voci dal Medio Oriente

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Da ormai una settimana, numerose proteste infuocano il Libano all’interno di quello che è considerato uno dei più grandi movimenti di contestazione scoppiati nel paese. Le manifestazioni, iniziate giovedì sera dopo l’annuncio del governo di voler imporre una tassa sulle chiamate via app, si sono velocemente diffuse in tutte le regioni da nord a sud e hanno portato in piazza richieste e rivendicazioni derivanti da un malcontento diffuso tra la popolazione messa in ginocchio da una crisi economica in cui il paese sta sprofondando da diversi anni. 

Le poteste sono cominciate in maniera spontanea giovedì sera (17 ottobre) e non sembrano volersi placare in tempi brevi: nonostante l’approvazione – nella giornata di lunedì – di un piano di riforme straordinarie condiviso da tutti i vertici del governo, tantissime persone sono rimaste nelle strade delle città più importanti del Libano rifiutandosi di rinnovare la fiducia ad un governo corrotto e immobile di fronte ai bisogni di una popolazione sempre più in difficoltà.

Centinaia di migliaia di giovani, sia uomini che donne, sono i protagonisti indiscussi delle proteste di queste intense giornate. Un cordone di più di trenta donne ha presidiato per diversi giorni la folla a Riad al-Solh Square separando, di fatto, un ingente schieramento di forze di polizia dal resto dei manifestanti. L’immagine stilizzata della ragazza che giovedì sera – durante il primo giorno di proteste – ha colpito con un calcio una delle guardie ministeriali di Akram Chehayeb è diventata virale sui social ed è presto divenuta una delle icone delle rivolte di questi giorni. Moltissimi i cori presi in prestito dalle cosiddette “primavere arabe”, tanti gli slogan che prendono di mira ministri nello specifico come Gebran Bassil, dal 2015 leader del Free Patriotic Movement e attualmente Ministro degli Affari Esteri e Migrazione. 

In piazza non sono presenti simboli facenti riferimento a partiti politici ma solo bandiere libanesi: le dissidenze politico-religiose che hanno contraddistinto la società libanese negli anni della guerra civile e, più in generale, nel corso della storia contemporanea del paese, sembrano aver lasciato spazio ad una folla compatta e unita contro l’élite politica libanese, della quale si chiedono a gran voce le dimissioni. 

Il centro di Beirut, conosciuto come downtown, non è mai stato così vivo e popolato di gente: da anni ormai (e, più in generale, da quando negli anni ’90 è stata affidata la ricostruzione post bellica del centro città a Solidere, società in mano alla famiglia del Primo Ministro Hariri) politiche neoliberali di gestione dello spazio urbano hanno trasformato il centro di Beirut in una città fantasma, totalmente priva di spazi pubblici di aggregazione e completamente asservita allo sfruttamento capitalista guidato dalle élite libanesi e del Golfo che si sono spartite questi spazi.

La riappropriazione dello spazio urbano è diventato, dunque, un elemento chiave in questi giorni di proteste: Martyrs’ Square, la piazza antistante la moschea El-Amin e che da anni viene utilizzata come parcheggio, è gremita di gente che balla, canta, gioca a carte e fuma narghilè. Due edifici storici del centro, simboli della guerra civile, sono stati riaperti e occupati dai manifestanti: uno è un teatro costruito più di cento anni fa dall’architetto Youssef Aftimus e utilizzato come cinema a luci rosse durante la guerra; l’altro è il famoso cinema di forma ovale “The Egg”, la cui costruzione iniziò nel 1965 e che non venne, tuttavia, mai portata a termine. Questi luoghi sono diventanti, da un giorno all’altro, spazi di aggregazione e socialità a lungo negati ad una società civile tra le più attive in Medio Oriente: giovani e meno giovani vi si ritrovano improvvisando serate musicali, spettacoli di giocoleria e di danza dabke. Inoltre, giovani artisti animano le strade di downtown facendone rivivere gli spazi attraverso la street art. 

La rabbia e la frustrazione di un popolo, per troppo tempo represse da speranze e false promesse, sono esplose in un attimo: sui giornali qualcuno ha parlato della “rivolta di Whatsapp”, riferendosi al tentativo del governo di tassare una delle applicazioni più utilizzate nel paese, ma ciò che si vede per le strade di Beirut è molto più di questo. Tutta la popolazione libanese, capeggiata dalle nuove generazioni, è in piazza per reclamare un futuro diverso, in cui la migrazione all’estero non debba per forza essere inserita nella propria agenda e dove l’etichetta del confessionalismo, a volte troppo riduttiva rispetto a quella che è la complessità libanese, possa essere messa da parte per fare spazio a dei diritti civili slegati da qualsiasi appartenenza religiosa.

 





mercoledì 9 ottobre 2019

Oltre le apparenze

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Domani sarà il termine di presentazione delle domande per il servizio civile di quest'anno.
Io ripenso alla mia scelta di due anni fa di lasciare il lavoro a tempo indeterminato e di rischiare tutto presentando una domanda che non sapevo se sarebbe stata accolta o meno.
Ma il progetto era troppo bello per non buttarsi e rischiare tutto.
Mi ero addirittura commossa nel leggerlo pensando "è quello giusto, questo fa per me!".
il giorno della selezione di gruppo ricordo di aver inviato un messaggio a casa dicendo "niente da fare, non ce la farò mai!". I giovani candidati erano tanti, e molti con esperienze formative e lavorative incredibili alle spalle.
Mi sentivo un piccolo puntino invisibile in mezzo a tutti loro.
E invece poi ce l'ho fatta!
E' arrivato per me il tempo della partenza, con il cuore in gola e un misto di paura e felicità che mi impedivano di realizzare davvero quello che sarebbe successo di lì a poco.
Partire, restare, tornare.
Partire è emozionante: ti mette addosso il giusto mix di curiosità e di paura per l'ignoto che ti aspetta e il tutto che stai lasciando.
I primi giorni dall'altra parte del mondo sono tutti una scoperta, un'avventura, un caos di nuovi nomi, nuovi volti, nuove strade, nuovi cibi, nuovo tutto che ti travolge e ti scombussola, ma più di tutto ti affascina, ti ammalia, ti fa innamorare del "tuo" nuovo mondo.
Dopo un pò la nuvoletta rosa di zucchero filato che ricopriva tutto nel tuo immaginario si dilegua, e riesci a vedere anche le difficoltà, le sofferenze, le ingiustizie e le fatiche. C'è spazio per la rabbia, lo sconforto, il senso di solitudine, l'incomprensione,l'indignazione.
Solo il confronto e il dialogo permettono di razionalizzare, di non generalizzare, di rielaborare i vissuti e di dare a tutto un'ordine e un significato.
La fretta non aiuta ma il tempo di tornare si avvicina e ci si rende conto presto che il tempo di salutare e di fare le valige per rientrare è giunto.
Ma è solo dopo un pò di tempo che si torna alla vita di sempre che ci si rende conto di tutti i "grazie" che si sarebbero dovuti dire, per tutte le cose imparate in quell'anno incredibilmente pieno che si ha avuto il dono di vivere.
Grazie a Scheletri Nellarmadillo per aver creduto in me ancora prima che riuscissi ad imparare a farlo io.
Grazie ai miei compagni SCE, vicini e lontani, che mi hanno fatto da specchio e accompagnata in ogni momento.
Grazie alle persone che dopo qualche mese di testardaggine hanno smesso di chiamarmi "muzungu" e hanno iniziato a chiamarmi per nome.


Grazie alle Sisters e a Nicoletta che mi hanno fatto conoscere la "loro Nairobi", ma che mi hanno permesso di conoscere "la mia".
Grazie a Meshack che mi ha fatto un pò da papà.
Grazie ai ragazzi di Cafasso e della YCTC, per tutti i momenti belli e brutti trascorsi insieme.
Grazie a Simone e a Padre Maurizio, che mi hanno ricordato che un mondo nuovo è possibile, se ci crediamo e se ci impegniamo, noi in prima persona, a realizzarlo.
Grazie a chi mi ha fatta sentire " a casa" in un paese tanto lontano e diverso dal mio.
Grazie a chi a voluto incontrarmi per davvero, lasciando da parte i pregiudizi e aprendo il cuore.
Grazie a chi mi ha fatto amare, ancora una volta, l'incontro con l'Altro-da-me.
Grazie per avermi portata dentro alle vostre vite tenendomi per mano, facendomi salire in sella ai piki piki, spostandovi un pò sul matatu per farmi spazio, accompagnandomi nei negozi quando mi perdevo lasciando i vostri aperti e incustoditi, dandomi i consigli su dove recuperare un altro sacco della spazzatura durante il trasloco, accettando la mia compagnia e le mie chiacchiere senza aiuto mentre voi faticavate nei campi sotto al sole, aprendo la porta delle vostre case, trovando il coraggio di portare una straniera nelle vostre famiglie e nei vostri villaggi, mettendovi in gioco nei laboratori un pò strambi che di volta in volta proponevo, camminando accanto a me e zittendo chi mi infastidiva, fermandovi per strada ad offrirmi un passaggio quando mi avete vista stanca o nel bisogno, sorridendomi ogni volta che ci incontravamo anche se non ci conoscevamo, ripetendomi "Karibu Kenya, feel at home" anche nelle giornate in cui ero più scontrosa, chiedendomi "come stai?" ogni volta che mi vedevate stranamente silenziosa, arrostendo una pannocchia sul fuoco anche per me per farmi sedere con voi a chiacchierare in una lingua che non sono mai riuscita ad imparare, invitandomi a restare a mangiare con voi nel carcere solo per regalarci a vicenda ancora qualche pettegolezzo e qualche risata insieme.
Sicuramente l'anno di Servizio Civile che ho trascorso in Kenya non ha cambiato il mondo, nè ha salvato vite umane.
Ma ha cambiato me, profondamente.
Perchè l'incontro con ogni persona, con ogni storia, con ogni vita mi ha lasciato dentro un piccolo seme che sono certa al momento giusto saprà crescere a dovere.
Sentirsi stranieri,provare sulla propria pelle la fatica di sentirsi osservati, giudicati, controllati in ogni momento è qualcosa che tutti dovrebbero sperimentare.
Per capire com'è bello e prezioso che qualcuno poi riesca ad andare oltre al colore della tua pelle e faccia un passo verso di te per conoscerti davvero e accoglierti nella sua vita, anche se questo costa fatica.